Il fratello di Emanuela Orlandi, Pietro, è convinto che l’indagine riaperta dalla magistratura vaticana sulla scomparsa della ragazza potrebbe durare pochissimo.
“Sanno la verità, basta raccontarla” dice netto e sicuro Pietro Orlandi, il fratello della ragazza vaticana scomparsa nel giugno 1983. In questi anni la famiglia, in primis Pietro, non ha mai smesso di cercarla e di cercare la verità. L’implicazione del Vaticano è stata indagata da molti nel corso di questi 40 anni ma il Vaticano ha sempre taciuto, prima con Giovanni Paolo II poi con Ratzinger e ancora con Papa Francesco.
Per Pietro non occorrono lunghe indagini sul caso di Emanuela Orlandi, anche perché nel corso di questi lunghi anni se ne sono fatte molte e seguite varie piste. Ma è sempre stato impossibile arrivare alla verità per l’ostruzionismo del Vaticano, secondo il fratello della vittima. “L’apertura di un’inchiesta in Vaticano sul rapimento di Emanuela, dopo 40 anni, se fatta veramente con la volontà e l’onestà di fare chiarezza una volta per tutte e dare finalmente giustizia ad Emanuela, potrebbe durare pochissimo e non sarebbe necessario fare lunghissime indagini” ha detto Pietro Orlandi.
Cosa ha portato a riaprire l’inchiesta?
A decidere di riaprire le indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi sono stati la Gendarmeria e il promotore della giustizia vaticana, Alessandro Diddi. Ma secondo Pietro, non sarebbe mai arrivata una decisione in questo senso senza il benestare del Papa, quindi Papa Francesco avrebbe avuto un ruolo decisivo nella riapertura dell’inchiesta.
Ma ci sarebbero anche nuove prove che avrebbero spinto alla riapertura del caso, ovvero uno scambio di chat tra due prelati. Sono screenshot allegati all’ultima denuncia di Pietro Orlandi di una conversazione tra i due preti “vicini a Papa Francesco” e che potrebbero essere sentiti dai pm vaticani nel corso delle indagini come persone informate dei fatti.